L’attuale situazione di emergenza derivante dalla diffusione del COVID-19 sul territorio italiano ha avuto un impatto significativo sia sulle persone fisiche, soggette ad importanti limitazioni di movimento e dei propri diritti fondamentali, sia sull’attività imprenditoriale, investita da diversi provvedimenti emanati dall’Autorità.
Fatta eccezione per le attività che il Governo – mediante l’emanazione di due Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri – ha ritenuto necessario sospendere temporaneamente (dapprima nella Regione Lombardia ed in alcune Province e poi estese a tutto il territorio italiano) sono infatti ancora molte le realtà imprenditoriali operative alle quali l’esecutivo ha fornito alcune indicazioni per contrastare la diffusione dell’epidemia pur nella prosecuzione del lavoro, rimettendo al singolo datore di lavoro una serie di valutazioni e decisioni operative sicuramente delicate e da prendersi in una situazione di continuo divenire.
Infatti, per quest’ultime attività sono state pertanto imposte una serie di precauzioni igienico sanitarie finalizzate a tutelare quella categoria di lavoratori costretta a proseguire la propria attività.
A tal fine, si rende opportuna una riflessione sulle questioni giuridiche di rilevanza penale ed amministrative (ex d.lgs. 231/2001) che potrebbero sorgere dallo svolgimento delle attività in presenza di condizioni che non rispettino gli adeguati livelli precauzionali stabiliti dalle diverse fonti normative.
In via preliminare, è opportuno sottolineare che non vi è dubbio alcuno che il contagio da Covid-19 nei luoghi di lavoro vada considerato alla stregua di un vero e proprio infortunio sul lavoro.
Tale conferma si ricava sia dall’art. 42 comma 2 del d.lgs. 18 del 17 marzo 2020 (c.d. Decreto Cura Italia) secondo cui il contagio da Covid-19 deve essere considerato a tutti gli effetti infortunio sul lavoro, sia dalla circolare dell’INAIL del 3 aprile n. 3 con la quale l’istituto ha fornito indicazioni in merito alle tutele garantite ai propri assicurati, precisando che, secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione di casi di malattie infettive e parassitarie, l’INAIL tutela tali affezioni morbose, inquadrandole per l’aspetto assicurativo, nella categoria di infortuni sul lavoro: in questi casi, la causa virulenta è equiparata a quella violenta. In tale ambito delle affezioni morbose, inquadrate come infortuni sul lavoro, sono ricondotti anche i casi di infezione dal nuovo coronavirus.
Per la giurisprudenza penale, in tema di lesioni personali, costituisce “malattia” qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali, onde lo stato di malattia perduri fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione.
Ne deriva che, nei casi di contrazione del coronavirus da parte di dipendenti o terzi, all’interno dell’ambiente di lavoro, potrebbe configurarsi una responsabilità sia del datore di lavoro per i reati di lesioni colpose o omicidio colposo, commessi in violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, sia della società per violazione del d. lgs. 231/2001.
In ogni caso, perché i suddetti reati possano essere contestati, è necessario che sussistano tre condizioni:
– che il contagio sia avvenuto nel luogo di lavoro;
– che vi sia stata una violazione delle norme emergenziali e/o del d.lgs. 81/2008 (T.U. sulla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro);
– che sussista un nesso causale tra l’evento di danno (lesione o morte) e la violazione delle suddette norme.
Invece, difficilmente potrà configurarsi a carico del lavoratore una responsabilità per epidemia colposa ai sensi dell’art. 452 c.p., in relazione all’art. 438 c.p. che punisce “chiunque per colpa (a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline) cagiona una epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”.
La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha escluso l’applicazione di tale norma nel caso di mancato impedimento dell’evento, poiché il reato di epidemia colposa non è configurabile a titolo di responsabilità omissiva in quanto l’art. 438 c.p. richiede una condotta commissiva a forma vincolante – “mediante la diffusione di germi patogeni” – incompatibile con il disposto di cui all’art 40 comma 2 c.p. a mente del quale “non impedire l’evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”, riferibile esclusivamente a fattispecie a forma libera, posto che un’omissione non può fisiologicamente riprodurre il disvalore insito a particolari modalità di azione.
Va evidenziato inoltre come in capo al datore di lavoro, ovvero colui che riveste all’interno del proprio ambito lavorativo la titolarità effettiva dei poteri decisionali e finanziari, vige l’obbligo stringente di porre in essere tutte le misure idonee a garantire la sicurezza e l’integrità psico – fisica del lavoratore, all’interno dei luoghi di lavoro.
La tutela della salute dei lavoratori costituisce dunque un vero e proprio obbligo del datore di lavoro. Detto principio di rango costituzionale (art. 32 Cost.) è declinato all’art. 2087 c.c. secondo il quale discende, in capo all’imprenditore, l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, e di prevenire l’insorgenza di malattie correlate al lavoro stesso.
Il sistema è poi completato dal d.lgs. 81/2008 che stabilisce una serie di obblighi specifici e procedure per la salvaguardia della salute e la protezione delle malattie e degli infortuni sul lavoro; poiché il datore di lavoro è il principale soggetto responsabile della sicurezza dei lavoratori è tenuto a controllare personalmente, salvo il rilascio di deleghe, la corretta attuazione delle misure di sicurezza in azienda.
Pertanto, l’omissione di siffatti obblighi, configurerà in capo al datore di lavoro la violazione delle contravvenzioni previste dal T.U. 81/2008, che potranno eventualmente costituire profili di colpa specifica in caso di contaminazione di soggetti entrati in contatto con l’ambiente lavorativo.
In ogni caso, secondo quanto previsto dall’art. 16 del predetto decreto, non sono mai delegabili dal datore di lavoro ad altri i compiti di valutazione dei rischi e di elaborazione del documento di valutazione dei rischi (D.V.R.), nonché di designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (R.S.P.P.).
In forza di tali disposizioni, il legale rappresentante della società assume la posizione di garante della sicurezza, ovvero di soggetto tenuto a dominare una fonte di pericolo per la tutela di beni da questa pregiudicabili, quali che siano i titolari.
In sostanza, l’amministratore diviene destinatario dell’obbligo giuridico di impedire che chi entra in contatto con l’ambiente lavorativo contragga il Covid–19, sicché dal mancato rispetto di tale obbligo può discendere, in forza della c.d. clausola di equivalenza di cui all’art. 40, comma 2, c.p. una responsabilità penale per le fattispecie di omicidio colposo e lesioni personali colpose, di cui agli artt. 589 e 590, commesse in violazione della normativa a tutela dell’igiene e sicurezza sul lavoro.
L’assunzione della posizione di garanzia, nonché dei conseguenti obblighi, non è volta a tutelare solo i lavoratori ma anche i terzi che entrino in contatto con l’azienda.
Inoltre, poiché i reati di lesioni o omicidio costituiscono i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. 231/2001, potrebbe essere contestata alla società una responsabilità amministrativa in relazione all’art. 25 septies del predetto d.lgs. In primo luogo, la responsabilità amministrativa della società è configurabile se il reato è commesso da un soggetto che riveste una posizione apicale nella struttura dell’ente; in particolare:
– da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale;
– da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
– da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno di questi soggetti.
In secondo luogo, è necessario che i reati di lesione o omicidio siano stati commessi nell’interesse o vantaggio dell’ente.
Tale ultimo presupposto potrebbe ravvisarsi nell’ipotesi di mancato acquisto di dispositivi di sicurezza allo scopo di risparmiare, oppure dalla mancata riduzione dell’attività, che si verifica nel caso in cui non vengano rispettate le misure di distanziamento e di scaglionamenti del personale dipendente.
Tuttavia, l’aspetto più difficoltoso per l’accertamento della responsabilità penale, sarà rappresentato dal nesso di causalità, tra la condotta omissiva del garante della sicurezza e i singoli episodi di contaminazione.
Anzitutto, andrà dimostrato che i sintomi o il decesso siano stati causati dall’esposizione al virus e non in conseguenza di altre patologie cliniche. Tale prova non sarà facile da fornire, atteso che in molti casi non sono stati neppure eseguiti esami scientificamente idonei a dimostrare l’avvenuto contagio.
Poi, in considerazione dell’ampia diffusione del virus nell’ambiente, sarà difficile accertare se lo stesso sia stato contratto in azienda e a causa di specifiche omissioni di misure anti Covid, oppure al di fuori di essa.
Sulla base dell’impianto normativo sopra illustrato, è evidente che, in una situazione di emergenza come quella attuale, il datore di lavoro è chiamato più che mai ad adottare tutte le misure finalizzate a prevenire e proteggere la salute dei propri dipendenti dagli effetti del virus, la cui omissione potrebbe dar luogo ad una responsabilità sia per lo stesso che per l’ente.