Tizio non riesce più ad onorare il mutuo concessogli dalla banca per l’acquisto dell’abitazione. La banca, dopo vari solleciti rimasti privi di riscontro, decide di avviare contro Tizio l’esecuzione forzata in relazione all’immobile concesso in ipoteca in occasione dell’erogazione del mutuo.
L’esecuzione avanti il Tribunale Civile si chiude con l’assegnazione alla banca del ricavato dalla vendita all’asta dell’abitazione di Tizio, senza che questi abbia mai proposto alcuna opposizione avanti il Giudice dell’esecuzione.
Dopo qualche tempo dalla definizione della procedura esecutiva, Tizio scopre che il mutuo azionato dalla banca non costituiva un valido titolo esecutivo, trattandosi di mutuo c.d. “condizionato”, non comprovante la consegna effettiva della somma, e che comunque lo stesso conteneva pattuizioni in contrasto con la normativa antiusura.
Può ora Tizio instaurare contro la banca un giudizio avente ad oggetto il risarcimento dei danni da esecuzione illegittima o la restituzione di somme non spettanti alla creditrice?
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha dato risposta negativa richiamandosi al principio della irretrattabilità (o della definitività) dei risultati della esecuzione. In sintesi, ritene la Suprema Corte che il provvedimento che chiude il procedimento esecutivo, pur non avendo, per la mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è, tuttavia, caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato col rispetto delle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti, incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, sussistendo un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti, all’interno del processo esecutivo (da ultimo, v. Cass. 23 agosto 2018, n. 20994).
La conseguenza di tale impostazione è che Tizio, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, non può, ad esempio, esperire l’azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente (o intervenuto) per ottenere la restituzione di quanto questi abbia riscosso, sul presupposto dell’illegittimità per motivi sostanziali dell’esecuzione forzata.
Infatti, poiché il codice di procedura civile prevede specifici rimedi per far valere eventuali errori in cui sia incorso il Giudice dell’esecuzione, anche nella fase distributivo/satisfattiva, è evidente che la totale inerzia del debitore esecutato gli preclude l’esercizio di ogni azione tendente a modificare o diminuire gli effetti che derivano dai provvedimenti emessi dal Giudice.
Come precisato dalla Suprema Corte (Cass. n. 23182/2014), tale conclusione “pare agevolmente ricondursi all’esigenza di legalità intrinseca dell’attività giurisdizionale, la quale implica, a sua volta, che sia possibile e sufficiente, ma al tempo stesso necessario, per i soggetti che se ne ritengano lesi, reagire all’interno del processo e coi mezzi apprestati dall’ordinamento, affinché il risultato finale possa presumersi conforme a diritto: il sistema processuale, in definitiva, non consente la sopravvivenza di pretese di tutela dagli effetti pregiudizievoli dei suoi atti, nemmeno solo risarcitorie, al di fuori delle azioni tipiche a tanto destinate (Cass. 20 marzo 2014, n. 6521)”.
Analogamente, si è stabilito che in caso di esecuzione forzata iniziata o compiuta dal creditore agendo senza la normale prudenza, la condanna al risarcimento del danno da questi procurato, può essere chiesta soltanto al Giudice che accerta l’inesistenza del diritto di procedere esecutivamente, e quindi unicamente nel giudizio di merito nel quale il titolo esecutivo si è formato oppure nel giudizio di opposizione all’esecuzione (Cass. 21 settembre 2017, n. 21944).
In conclusione, è bene non trascurare l’esercizio dei propri diritti pur a fronte di contratti parzialmente nulli per contrasto con norme imperative dell’ordinamento: il rischio è quello di patire oltre al danno la beffa.
Occorre allora attivarsi tempestivamente e valutare con l’ausilio di un professionista lo strumento di tutela più adeguato al proprio caso.
Ricordiamo, infine, che a seguito della modifica dell’art. 615 c.p.c. apportata dai D.L. 83/2015 e 59/2016, nell’esecuzione per espropriazione l’opposizione è inammissibile se è proposta dopo che è stata disposta la vendita o l’assegnazione a norma degli articoli 530, 552, 569, salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti ovvero l’opponente dimostri di non aver potuto proporla tempestivamente per causa a lui non imputabile.